VI

«AMORE E MORTE»

Nella lettera alla Fanny del 16 agosto 1832 il Leopardi scriveva: «E pure certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo e le sole solissime degne di essere desiderate».

E sempre nel ’32 dettava un’iscrizione per il busto di Raffaello nella villa Puccini presso Pistoia (la cui autenticità mi pare indubbia proprio per la coincidenza di data e stile).

RAFFAELE D’URBINO
PRINCIPE DE’ PITTORI
E MIRACOLO D’INGEGNO
INVENTORE DI BELLEZZE INEFFABILI
FELICE PER LA GLORIA IN CHE VISSE
PIÚ FELICE PER L’AMORE FORTUNATO IN CHE ARSE
FELICISSIMO PER LA MORTE OTTENUTA
NEL FIORE DEGLI ANNI
NICCOLÒ PUCCINI QUESTI LAURI QUESTI FIORI
SOSPIRANDO PER LA MEMORIA DI TANTA FELICITà.

E del resto già nel Pensiero dominante il legame fra il sentimento dell’amore (cioè l’animo reso incapace di vivere la vita bassa dell’interesse comune e disposto solo ad atti assoluti, incompromessi) e la morte era già apparso chiaramente nel suo caratteristico senso di affermazione eroica di un valore, di una verità senza retorica. Non mancano neanche preannunci lontani di questo tema e si potrebbe citare dallo Zibaldone questo pensiero del 16 settembre 1823 in commento a versi petrarcheschi e di Saffo: «È proprio dell’impressione che fa la bellezza (e cosí la grazia e l’altre illecebre, ma la bellezza massimamente, perch’ella non ha bisogno di tempo per fare impressione e come la causa esiste tutta in un tempo, cosí l’effetto è istantaneo), è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli d’altro sesso che la veggono e l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare...». Echi lontani di pensieri sensibili nati sotto il segno di un sentimentalismo ancora settecentesco in quanto incanala in precisazioni sensistiche un altissimo platonismo, che nel nuovo periodo vengono sviluppati oltre le loro originarie possibilità (il calore nuovo non annulla la ricchezza di indagine sensistica degli anni giovanili) da un preciso senso della passione, da una vissuta integrazione romantica. E quindi il legame che un commento perpetuo può trovare fra Amore e Morte e il periodo precedente, non toglie ed anzi avvalora la novità e il piano diverso su cui si muove il Leopardi 1832.

Nel Pensiero dominante (a voler precisare la caratteristica situazione di Amore e Morte al di là della comune poetica) era ammessa poi la possibilità di una scelta fra morte e vita

(solo per cui talvolta,

non alla gente stolta, al cor non vile

la vita della morte è piú gentile),

mentre il punto nuovo di Amore e Morte è il superamento di ogni mediazione, l’adeguamento immediato di amore come sentimento assoluto e di morte come stato assoluto di libertà. La unicità del «pensiero dominante» (come amore) è scomparsa e il mondo alto, affermativo del poeta ha due termini di assoluto che cercano di compenetrarsi, ma permangono inevitabilmente distinti e capaci, in quanto motivo unico di movimenti piú ondeggianti, di qualche inflessione cantata (e il limite massimo può essere quasi un belliniano cedere librettistico) che già pare indicato nel titolo audacissimo nella sua semplicità, estremamente romantico (e su questa via vicino persino a una cadenza popolare), deciso nel suo isolamento e pure come impastato piú dolcemente nella sua mossa sentimentale, nello scambio di suggestioni che le due parole principi della poesia operano fra loro con bagliori languidi ed echi sepolcrali che solo un riferimento preciso alla nuova poetica e al valore piú spirituale che sensuale delle parole leopardiane riesce a superare, ma non ad annullare: come non si annulla la ricchezza sensibile di suggestioni piú autobiografiche, cantate, e alla fine sensuali – anche se di una sensualità inconscia – che ammorbidiscono la poesia di questo grande canto.

E non si può negare in alcun modo che nelle prime tre strofe qua e là palesemente e un po’ diffuso per tutto con effetti a volte di arricchimento di luci, di vibrazioni, a volte di illanguidimento eccessivo, agisce ben diversamente che nel Pensiero uno spirito petrarchesco in senso madrigalesco, una volontà di floridezza pur entro la solida eleganza di una struttura che richiama a volte quella di Alla sua donna e che nella sua musica meno impetuosa, ma decisa, evoca stimoli severi, quasi stoici finché i due momenti e la posizione fondamentale da cui derivano, nella sua geminazione fruttuosa e pericolosa, riescono ad organizzarsi unitariamente nella ultima strofa.

E cosí anche agli onesti ricercatori ottocenteschi sarebbe potuta apparire strana l’estrema diversità di «fonti» letterarie: la severa canzone alla Morte di Pandolfo Collenuccio che certo il Leopardi ebbe presente nella pubblicazione fattane dal Perticari nel 1816 sulla «Biblioteca italiana» e i madrigali cinquecenteschi di Erasmo da Valvason e di G. B. Basile. Nella prima accanto a toni «leopardiani» («acerba matrigna / natura», «Questa ch’ha nome vita falso in terra, / che altro è che fatica, affanno e stento, / sospir, pianto e lamento, / dolore, infermità, terrore e guerra?») dové essere rilevante agli occhi del nuovo Leopardi la struttura severa, il colore «d’anima» nella sua ricerca di forza tutta tradotta in musica severa ed intima, in linee sinfoniche potenti e poco sensuose. Nei secondi il Leopardi poté calcolare la struttura snella (specie di quella del Basile) adibita ad effetti di eleganza «intelligente»[1].

Di modo che le «fonti» confermano (come presenze culturali ad un’attenzione di poetica) l’ispirazione fondamentale del canto in cui la tensione tipica del nuovo periodo si dialettizza in toni piú decisi e diretti, in toni piú musicalmente madrigaleschi, in un impasto spesso originalissimo di violenza e di dolcezza estatica finché l’ispirazione piú forte e costante prevale e il motivo eroico travolge, utilizzandoli, ogni tenerezza, ogni canto piú prezioso.

I due poli tesi da un’unica energia attraggono movimenti assai diversi e meno grandiosamente coerenti di quelli del Pensiero che agivano per innovazioni di ritmo su di un unico tono sostanziale: qui i due toni che non sono mai nettamente separati operano a volte in senso di arricchimento a volte con effetti confusi come avviene nella terza strofa o scoprendo vicendevolmente strutture esili e solenni o dolcezze troppo estatiche.

Se questi possono essere i limiti (un certo ondeggiare, un certo passo di danza, di aureo mito che non sempre è accordato con il colore d’anima che tinge il motivo piú personale ed affermativo), quale ricchezza di poesia, quale tenacia artistica in un canto che si proponeva un tema cosí sentimentale in una atmosfera di estrema forza personale e di suprema coscienza artistica!

Ché la forza che spesso nominiamo non è un rozzo vigore, ma una potenza matura, artisticamente matura e quindi capace anche delle piú squisite ricerche poetiche.

È nelle prime tre strofe (specie la terza) che si risente piú l’effetto complesso e a volte dispersivo dovuto al tema nel suo valore di altissima trovata e di pretesto a contrapposizioni eleganti. Nella prima che dà l’esempio di una struttura snella, allungata che troverà l’ultima soluzione nella Ginestra, il titolo subito ripreso nel primo verso e la citazione menandrea fra assorta e leggiadra danno il tono del canto, solenne, tendente a forte stilizzazione (ben piú energica e sanguigna che nella canzone Alla sua donna) e pure poco aulico e quasi elementare:

Cose quaggiú sí belle

altre il mondo non ha, non han le stelle.

Come se il poeta volesse rendere un’impressione universale e appoggiata ad una esperienza di gentilezza e di saggezza sia pure istintiva che nella seconda parte della strofa induce un tono quasi da ammaestramento stilnovistico, guinizelliano:

né cor fu mai piú saggio...

ch’ove tu porgi aita,

amor, nasce il coraggio.

Riprova di una impostazione meno impetuosa del Pensiero su di una linea in cui un’unica ispirazione poetica flette il suo vigore in misure piú allungate e preziose senza perdere la sua caratteristica di urgenza e di ritmo ascendente, senza ricerca di distensione e di abbandono.

E questo linguaggio elegante ed essenziale è tanto piú efficace e coerente alla proposta del tema in quanto non va disperso (come in qualche punto del canto), ma converge nella creazione di un nuovo mito che si svolge aereo e affermativo fino al verso 16 e costituisce una delle cose belle del canto, sollevato com’è in quel volo finale in cui lievi ricordi neoclassici, canoviani, acquistano una vastità di sogno romantico e la certezza di una trasfigurazione di sentimenti piú che di una decorazione astratta e lineare, sí che l’eleganza, l’accenno di stilizzamento innegabile trovano una loro funzione superiore proprio perché sostenuta da questa esigenza di mito in cui il «sentir proprio» del Pensiero sembra essersi fatto motivo di coro.

Accertata la natura di questa prima parte del canto bisogna subito dire che i pericoli accennati sono tanto meno gravi e tanto piú significano arricchimento di linea poetica se questa è vista nella sua funzione musicale. Prova ne sia l’inizio che sarebbe falsato se si riducesse a preziosa e cantilenata trovata, mentre nella fermezza quasi liturgica che anima il canto, esso vive nella sua perfezione di struttura perentoria e sinfonica, nelle sue misure simmetricamente potenti: membri uguali a chiasmo di endecasillabo-settenario e settenario-endecasillabo chiusi da un movimento simile entro l’ultimo verso di questa prima unità:

altre il mondo non ha, non han le stelle.

Inizio che trova svolgimento in un crescendo col solito rafforzamento per ripetizione (qui piú intensa perché iniziale e rappresentata da un verbo in azione che dilaga energicamente in una espressione solenne, dantesca, ben qualificata quanto a fermezza e vastità):

Nasce dall’uno il bene,

nasce il piacer maggiore

che per lo mar dell’essere si trova.

E dopo una frase ancora simmetrica che pare fermarsi al terzo verso per uguale misura suggellato dalla rima e dall’immagine rapita («bellissima fanciulla»), la musica si svolge in immagini sollevate e in frasi di sicura fermezza, come sono quelle che animano i versi 15-16, nell’ultimo dei quali la certezza batte il suo ritmo conclusivo e perfetto:

e sorvolano insiem la via mortale,

primi conforti d’ogni saggio core.

Donde si può rilevare ancora la forza unica di questa poetica e le variazioni derivanti dall’impostazione del tema che dànno ad Amore e Morte la sua eleganza e i suoi rischi.

Dal verso 17 si apre una serie di battute a contrappunto dopo lo svolgimento principale, con membri fratti anche entro la musica del verso e gradualmente piú ampi, ma indubbiamente meno capaci della musica intera della prima parte[2]. La ricchezza del canto trova una magnifica conferma nell’inizio della seconda strofa che resta fra gli inizi piú belli di tutta la poesia leopardiana: slanciato, energico e insieme abbondante di echi profondi, di accordi piú che sintattici: il primo verso fatto da due avverbi, il secondo e terzo dolcissimi e intensamente seri, gli ultimi due sensibile e assoluta espressione di una verità di esperienza affermata come verità generale[3]. Non abbandono, ma passione languida per troppa pienezza in cui l’aria di mito scompare sostituita da un certo alone psicologico, relativo a un certo indugio analitico che incide nel procedere a rafforzamenti per ripetizione (alleggerita ed esitante nelle parole adoperate: «forse, forse», coerentemente a questa intima sopraffazione estatica della passione: «come, non so»), nell’aggettivazione che con aurea pienezza cerca di costruire nuclei potenti ed estatici intorno al centro vitale che qui è il sentimento d’amore come dopo con piú potenza sarà il desiderio della morte:

nova, sola, infinita

felicità.

Ma il ritmo sempre urgente prevale e secondo la linea interna della nuova poetica mira a sollevare il finale con la vicina ripetizione del verbo intensamente leopardiano «brama» e con un’immagine appena accennata nel suo massimo sforzo di identificazione immediata con il sentimento stesso:

dinanzi al fier disio,

che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

L’energia che in questo finale pronuncia la sua volontà di movimento tempestoso e solenne, si concentra e si realizza con migliore risultato nell’inizio della terza strofa:

Poi, quando tutto avvolge

la formidabil possa,

e fulmina nel cor l’invitta cura...

in cui tutto il movimento è coerente e impetuoso e l’immagine della tempesta scatenata si fa veramente tono poetico in cui s’identifica la tempesta del cuore alla quale i verbi «avvolge», «fulmina», piú audaci del troppo onomatopeico «rugghiando», dànno quel senso di tragedia vissuta ed eroica che ben si presta all’invocazione seguente:

quante volte implorata

con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall’affannoso amante!

Nel resto della terza strofa la musica sembra nobile e rilevata dai procedimenti a noi noti, sottolineata da mosse di eleganza conclusiva che dalla canzone Alla sua donna furono assimilati con altra intenzione nella nuova poetica («tanto alla morte inclina / d’amor la disciplina»), ma troppo disposta a diluirsi in esempi che non sono piú i divini quadretti idillici ma ne risentono poco opportunamente come un richiamo di tono popolaresco, villereccio[4]. Quello che il Vossler chiamò un «Volkslied», ha veramente qualcosa di popolaresco pure in una intenzione per nulla gustosa ed anzi drammatica che corrisponde al disegno di una esemplificazione del legame «amore e morte» in ogni anima anche solamente istintiva. E in questo stesso disegno c’è qualcosa di schematico e di ingenuo, di convenzionalmente legato ai modi piú esteriori dell’epoca romantica.

Solo entro questi limiti (a loro volta compresi non come deviazione essenziale, ma come effetto di variazioni di minore intensità) si possono sentire i valori poetici di questa parte piú stanca: cosí il lento motivo dell’accompagno funebre con il suono ambiguo del verso 56[5] e quello smorto e dolente del verso 61 col suo fascino di una lugubre e languida sensibilità

che tra gli spenti ad abitar sen giva,

in cui il linguaggio «vago» dell’idillio riaffiora senza il suo speciale vigore:

e l’abitar questi odorati colli.

Piú scadente è il quadretto della donzella «timidetta e schiva» (sbiadito ritorno di A Silvia) che pensa alle «funeree bende» e scadente è l’accenno al timore femminile per la morte:

che già di morte al nome

sentí rizzar le chiome.

Anche peggiore è l’ultimo quadro nato da un desiderio di completezza (il suicidio per amore) e preparato da versi forti ma non ispirati, troppo contorti e privi del vigore unitario che in versi simili il poeta otterrà (attraverso nuove esperienze) nella Ginestra:

o cede il corpo frale

ai terribili moti, e in questa forma

pel fraterno poter Morte prevale;

o cosí sprona Amor là nel profondo...

Ultimo verso potente che viene subito smorzato dal canto troppo danzante dei versi seguenti:

il villanello ignaro,

la tenera donzella.

Né piú che una bordatura frizzante riesce per la sua scarsa coerenza con l’anima del canto, la considerazione finale:

ride ai lor casi il mondo,

a cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Nell’ultima strofa invece il poeta mette da parte con i primi versi il duplice tema di amore e morte con quest’ultimo accenno a quel tono mitico che a quel tema si accompagna:

dolci signori, amici

all’umana famiglia.

E dal verso 96 un nuovo inno alla morte si leva tanto denso e urgente che molti particolari di questa Morte piú florida che virginea richiamano la «angelica beltade» anch’essa unica, isolata da movimenti e parole simili a queste:

«tu, tu sola, se non te sola».

E specie dal verso 108 il tono si fa piú robusto e l’unico periodo finale rappresenta coerentemente il culmine lirico di questo canto. Una complessità impetuosa quasi travolgente ogni regolarità sintattica per nuovi rapporti tutti frontali e risoluti sino all’ultima mossa, che, senza calare in abbandono, si fa improvvisamente di una livida serenità che supera per decisione ogni grido e che non va confusa con altre eleganze sorridenti da cui pure essa riprende l’estrema leggerezza di ritmo.

La sintassi sembra veramente travolta e gli infiniti che seguono al primo scatto eroico («me certo...», «erta la fronte, armato...») e dipendono dal «me certo troverai» piú per legame poetico che per rapporto sintattico, agitano la forza iniziale resa piú violenta dalla cupa foga inquisitoriale balenata nei versi 112-13 e si fanno serrare (sempre con scarso rispetto di tradizionale compostezza) dall’ultimo e piú forte «gittar da me», dove l’azione e il soggetto richiamano il centro personale e combattivo di questo grande movimento lirico e preparano la caldissima introduzione alla frase finale:

null’altro in alcun tempo

sperar, se non te sola.


1 Del primo il Leopardi ebbe presente soprattutto il «givano per lo mondo» che là era scherzo entro una logora mitologia e qua nuovo mito creato da una nuova sostanza poetica, e il «muor giovane» ripreso nell’epigrafe menandrea e in una frase contemporanea del Tristano; dal secondo forse venne la segreta suggestione del volo («ciascun di loro ha l’ale») e il senso della femminilità della morte tutto trasvalorato in estasi neoclassica: «egli ignudo, ella ignuda...». Ma ambedue i componimenti non estesero le loro possibilità di vivere nella memoria operante del Leopardi, oltre la prima strofa.

2 Si noti perifericamente la coincidenza romantica dei versi 24-26 («e sapiente in opre / non in pensiero invan, siccome suole / divien l’umana prole») con il disprezzo hölderliniano per il contemporaneo “tatenarm, gedankenvoll”.

3 Il che non vuol dire affatto sottoscrivere l’opinione del Levi secondo cui la prima parte di Amore e Morte avrebbe «un carattere impersonale e dottrinale» (Canti, Firenze 1930, p. 230), poiché Amore e Morte descrive un fatto di esperienza universale, quale è la formidabile potenza dell’amore, negli animi piú semplici o rozzi, non meno che nei piú eccelsi, lasciando indietro i sentimenti piú sublimi e rari del Pensiero dominante.

4 «I nostri idilli teocritei, – scriveva il Leopardi nello Zibaldone, 1819 (p. 86, I, ed. Flora), – non sono né le ecloghe del Sannazzaro né ecc., ma le poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ecc.».

5 E spesso al suon della funebre squilla.